Hanno scritto di lui

MASSIMILIANO CASTELLANI

Omaggio all’artista

 

C’è stato un tempo, gli anni ‘60 (ma anche i ‘70) in cui essere artisti a Milano voleva dire possedere uno respiro internazionale ed essere baciati dalla dea dell’eclettismo. In quest’aurea, forse irripetibile, è vissuto e ha fortemente operato Gustavo Bonora, bolognese di nascita, ma milanese da sempre, che ieri (7 marzo 2014) si è spento all’età di 84 anni. Con i colleghi e sodali Mino Ceretti, Claudio Olivieri, Giuseppe Guerreschi, Alik Cavaliere e Emilio Tadini, Bonora in quel periodo di grande attività, ha contribuito a erigere un ponte culturale che, dalla Galleria Solferino, univa la scena di Milano a quella di Londra e New York.

Le sue tele recentemente riproposte nella mostra del foyer del cinema Gloria e allo Spazio Tadini, sono un monito per ripensare e rileggere in chiave originale il capitolo dedicato all’arte informale.

Bonora è stato uno sperimentalista nel puro senso del termine, un artista che non si è accontentato dello spazio ristretto dell’atelier, ma ha cercato di dare forma ad altri linguaggi, a cominciare dalla musica (jazz), per poi approfondire la psicanalisi.

Nel caos attuale della grande bruttezza Bonora ha preferito rifugiarsi in un solipsismo estetico e iperattivo, all’interno dello spazio vissuto dell’exfabbricadellebambole, dove (con la moglie Rosy Menta e con Daniela Basadelli Delegà) ha dato voce alle nuove generazioni artistiche, nella speranza di un ritorno a quella Milano della sua meglio gioventù.

 

9 marzo 2014


FRANCESCO TADINI

Gustavo Bonora

 

Il lavoro di Gustavo Bonora è legato saldamente al corpo dell’arte del Novecento e a quei tessuti, organi e articolazioni che gli hanno dato vita e sconfinato le frontiere temporali del nuovo Millen­nio.

Un lavoro di frontiera avviato in un dopoguerra milanese particolarmente ricco di cantieri culturali nei quali si costruivano anche le case che ancora oggi abitiamo. Un processo che vede interconnet­tersi – ancora con inesauribile manualità – le discipline dell’arte e della conoscenza dell’uomo.

Sarà per questo che Gustavo Bonora intraprende, parallelamente all’attività artistica, quella di psi­coanalista. Non si può preferire Bonora pittore a Bonora psicoanalista se non per vizio. L’occhio vuole la sua parte e concede raramente un “pari” alla riflessione che ne maturi l’acutezza. Ma è suf­ficiente scavare un poco per sondare le radici della indiscutibile qualità pittorica di Bonora e recu­perare il terreno che le nutre. Terreno delle più grandi conquiste etiche, oltre che estetiche, della ge­nerazione che precede chi oggi è nel cammin di nostra vita.

Se l’arte informale – territorio di sperimentazione privilegiato da Bonora – è stata, consapevolmente o no, la risposta artistica che l’Europa ha dato alla crisi morale e politica conseguente gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, allora non si può che risalire ai progenitori e alla loro epoca (di quasi tutte le avanguardie artistiche successive oltre che dell’Informale): i surrealisti e la Prima Guessa Mondiale. Guerra nella quale, come racconta lo storico americano Ely Zaretsky (in I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi) “(…) uno studente francese di medici­na, a nome Andrè Breton, fece una suggestiva scoperta: mentre curava un soldato traumatizzato, il quale si era costruito la fantasia che la guerra fosse finita, le ferite dei soldati fossero solo dipinte e i morti presi in prestito alla facoltà di medicina, Breton cominciò a dare forma  alle idee del movi­mento che chiamerà Surrealismo…” […]

Bonora, non “organico” (gli intellettuali organici erano essenziali, per Antonio Gramsci, nella co­struzione dell’egemonia culturale) già intellettuale di vaste e articolatissime letture – da Sarte a Husserl, oltre che a Freud e Lacan – non poteva che darsi la libertà di esplorare un sapere non ri­chiesto da un sistema delle arti che doveva – per necessità anche mercantili – inseguire, in definiti­va, centri di potere.

 

2014


LUIGI MARSIGLIA

Il Novecento di Gustavo Bonora

 

Con un carissimo collega purtroppo scomparso – di cui non farò qui il nome: vorrei anzi rimanesse del tutto anonimo, qual ricordo personale da preservare tenacemente – mi sono ritrovato spesso a domandarmi, in una sorta di disquisizione oziosa ovvero di riflessione condotta a viva voce, che cosa si dirà del Novecento e soprattutto del secondo Novecento tra cinquanta o cent’anni. Ossia, il bilancio cultural-spirituale e artistico del secolo breve intravisto a una certa distanza di tempo, con una naturalezza spassionata e dopo la fine naturale di alcuni autori e l’esaurimento fisiologico di diverse firme considerate oggi di moda, di cui si perderà credo il memento. Che rimarrà del XX secolo? Poco oppure tanto non so: sicuramente altro rispetto a ciò che viene presentato ancora adesso, al principio del terzo millennio, sotto sedicente forma di pietra miliare della storia dell’arte. Non mi sorprenderei affatto, sperando allora in una mia persistenza ancora sensibile e corporea, di rilevare tra gli autori “storici” di questo recente passato il nome di Gustavo Bonora. Pittore schivo e completo, con il suo bagaglio di letture e di analisi dei meccanismi psichici, Gustavo ha attraversato in punta di piedi il secondo Novecento, seguendo la scia identificativa di un’arte mentale più che astratta, di un’arte simile a una terapia umana di scrittura cromatica. E di musicalità vibrante sotto la superficie dei segni. È un mondo, il suo, reso su tela e carta in prima persona, in cui il gesto artistico  ha impegnato anima, cuore e mente. Passionalità che si raffredda attraverso l’introspezione – più che la ricerca – di quel che deve essere. Non è scrittura automatica la sua, ma una meticolosa, paziente e circolare linearità condotta passo dopo passo verso sé stesso, all’interno del tempo umano e contro il tempo disumano. Non seguite i titoli nelle opere di Gustavo poiché, rispetto ad altri autori, essi appaiono volutamente fuorvianti. Queste tele, non trattando di soggetti parziali, si mostrano come spezzoni esistenziali in sé e per sé circoscritti: vite brevi accanto alla vita estesa nella propria completezza di durata ed esperienza; queste tele parlano di Gustavo oltre di quel secolo breve nel quale si ascrivono in maniera peculiare. Il colore è sia tenue sia preponderante, tra astratto e informale, segni minuti che si rincorrono in volute e vortici microscopici; macchie e segmenti, qua e là un’ombra figurativa: non è poi così la vita stessa, dove la chiarezza annega in circonlocuzioni, passaggi verbali capziosi, in un vento sottile che fa muovere il tutto? Opere non statiche ma dinamiche, simboli del Novecento che rimane.

 

2014


NICOLA MAGGI

Gustavo Bonora: un intellettuale al servizio dell'arte

 

Nella sua pittura c’è l’agilità e la competenza dell’incerto, la convinzione che non ci sia una sola verità, ma suggerimenti che nel durare di quell’attimo sanno annullarsi nel dubbio seguente, in un movimento continuo e innovante». Le parole di Viviana Duimio inquadrano in modo perfetto il lavoro di Gustavo Bonora che, assieme a Mino Ceretti, Claudio Olivieri, Giuseppe Guerreschi, Alik Cavaliere e Emilio Tadini,  è stato uno degli artisti più significativi della scena artistica milanese degli anni Sessanta, caratterizzata da un dialogo serrato con New York e Londra. Una temperie in cui Gustavo Bonora si colloca in modo del tutto autonomo, operando una rilettura dell’Informale che si sviluppa attraverso l’applicazione della gestualità della pittura d’azione e della scrittura automatica a una ricerca artistica in cui l’immagine naturale, filtrata attraverso la memoria, diviene, come ha scritto il critico Renzo Beltrame, «un fatto psichico complesso» dove «altre immagini dell’ambiente originario, il ricordo di emozioni, di certi stati d’animo prevalenti in quei luoghi, ne corrodono le particolarità e vi si amalgamano sino a togliere ogni determinazione del luogo e del momento di prelievo». La sua vocazione, però, è più quella dell’intellettuale che non dell’artista tout court, e questo lo porta, negli anni, ad allargare la sua ricerca ad altri ambiti culturali, come la musica e la psicanalisi. Un’interpretazione del suo ruolo che lo porta ad una vita ai margini del Sistema: lontano dal mondo espositivo e dal mercato, senza per questo isolarsi dalla scena artistica milanese per la quale, invece, il suo studio diventa un punto di riferimento e di ritrovo, come oggi è la sua casa, sede dell’Associazione Culturaleexfabbricadellebambole, dove lo abbiamo incontrato per una breve chiacchierata. (prosegue qui)

 

Collezione da Tiffany, 7 gennaio 2014


MICHELANGELO COVIELLO

 

Quello che resta del mondo è un quadrato. Nessuna idea di rappresentazione, il figurativo è stramazzato, il colore agonizza in modo informale. Se al Bonora gli prende la voglia del pennello, della tela e tutto il resto da fare con le mani deve fare i conti con la storia.

 

(...)

 

Quadrato come centro, origine, la pittura da cui fuggire. Il colore intanto deborda dal suo centro e a sua volta, si fa centro. Ecco il paradosso di Gustavo. Sconfinare, entrare e uscire da lei che non si fa vedere, neanche toccare, allora insistere a colorare della vita quell’istante che non c’è.

 

Milano, 2013


MARCO ROSCI

Estratto dal catalogo, mostra collettiva “I Pittori del Giudizio”, Riva Valdobbia

 

Sul versante della corporeità, l'alternativa è offerta dai due Monitor di Bonora, mortificata e "testoriana" rilettura espressionistica molto lombarda di un frammento del messaggio ammonitorio dell'affresco del cinquecentesco M. D'Enrico, ...

 

1977


FIORELLA MINERVINO

Corriere della Sera, recensione della mostra personale alla Galleria Solferino

 

Il ritratto gode oggi di una rinnovata fortuna. La ricerca dell’identità altrui è un mezzo non solo per rintracciare se stessi, ma per meglio afferrare quanto ci circonda. Per Bonora, 47 anni, bolognese, lo scopo è una rivisitazione, anzi un’analisi critica (in parte psicanalitica) di un’immagine, o meglio, un segno, da restituire a una struttura globale che è la realtà. Bonora scardina un volto per recuperarlo come parte di un tutto. La sua è un’indagine sull’uomo, nel tentativo di dimenticarne il ruolo prioritario nei confronti degli oggetti, dell’ambiente, dello spazio, e scoprirne infine il significato più vero. È anche un’esplorazione sulla pittura, cioè sugli strumenti di un mestiere, carico di secoli, che, se rinnovato, può aiutarci a meglio penetrare la vita. Bonora ama profondamente la pittura, ne conosce i segreti, è cresciuto con essa. Il tentativo di negarla è dunque solo in funzione del ritrovamento di un valore perduto, al di fuori di una produzione di massa e della serialità. Un recupero che offre esiti interessanti, a volte sorprendenti. È soprattutto il caso di alcuni ritratti di amici, gli artisti, Tadini, Pardi, Ceretti. Su basi scure. I volti dei personaggi si delineano sommessamente, appena rintracciati dal buio dei fondi. A volte un segno o un tratto espressionista, offrono un carattere subito riconoscibile. La sembianza è un vincolo imprescindibile.

 

Milano, 1977


MARIO PERAZZI

Corriere della Sera, recensione della mostra personale alla Galleria Solferino

 

Alla Solferino, una sorpresa: le fascinose tele di Bonora, chissà perché così poco noto.

1977 - Mostra personale alla Galleria Solferino: “Il ritratto” – Autopresentazione.

 

Milano, 1975


EMILIO TADINI

Presentazione per la mostra personale alla Galleria Sorferino

 

    1 – La pittura di Gustavo Bonora ha tutte le apparenze di una pittura effusiva – di una materia che scorra sulla tela, rapida, improvvisata tra luce e ombra. Eppure un elemento essenziale, in questi dipinti, (una invariante che possiamo rintracciare in un gran numero di quadri) è costituito, fguuralmente, da piccole pietre, da sassi dispersi sulla superficie del quadro come tracce di forze, oppure organizzati in serie regolari come una scrittura. E un sasso è l’immagine più elementare, addirittura più ovvia, del peso, dell’inerzia.

    2 – È certo che la scoperta di una contraddizione non ha il potere di scoraggiare chi sia intento all’analisi di un fatto qualsiasi. È vero, piuttosto, il contrario. Poiché là dove appare una contraddizione, un fatto si rivela in quello che è il suo nodo essenziale, costitutivo. Anche in questo caso, in quella contraddizione tra effusa materia pittorica e precisa definizione di un’immagine, tra gesto a caldo e ”fredda” costruzione figurale, si mostra la qualità più specifica di Bonora. I due elementi che abbiamo sommariamente identificato trovano nella contraddizione che li oppone e li unisce la forza di produrre continuamente un’altra cosa. Aderendo “plasticamente” ai rilievi di quella contraddizione la pittura di Bonora si costituisce nell’immagine di un corpo complesso – nell’immagine dell’ambiguità.

    3 – Possiamo cercare di rilevare quali siano le nostre reazioni di fronte a questi quadri. Possiamo cercare di guardare proprio il nostro sguardo mentre si posa su queste immagini, e se  ne distoglie, e poi torna a posarvisi. È come se nei quadri di Bonora la nostra prima vista ritagliasse uno schema di turbolenze pittoriche, di sfondamenti e di emergenze atmosferiche, di scenografie provvisorie. Ma poi le immagini agiscono sulla nostra vista fino ad aprirvi una pausa – fino a che siamo presi da una specie di dubbio a proposito di quello che abbiamo visto e che abbiamo penato di aver visto e che siamo tornati a guardare. Un dubbio, un’incertezza, a proposito di quella che vorremmo si ponesse come la definizione di questa pittura. Ma subito dopo possiamo renderci conto che il posto della definizione deve essere occupato – definitivamente – proprio da quel dubbio, da quella incertezza. Nessuno dei diversi momenti di cui “si compone” il nostro vedere quei quadri (e il nostro pensarli) può essere eliminato. Ma ciascuno di quei momenti è di continuo messo in tensione dalla presenza e dall’attività degli altri.

    4 – Torna a proposito quella parola, ambiguità. Ambiguità tra effusione e concentrazione, tra cose che vibrano e cose che pesano – tra la funzione del colore (ci si sente “portati” a rilevarlo) e la funzione del segno. Il senso di quell’ambiguità finisce per collocarsi nel centro stesso del “materiale” del dipingere. In una delle tele più recenti, quei sassi lasciano il posto al loro vuoto. Appaiono scomparendo:  nella traccia del loro negativo.  Ma a quel vuoto si oppone l’energia oggettiva del colore, organizzato in un sistema semplice di serie. E credo che non sia un caso se è proprio in questo quadro che Bonora usa i colori fondamentali. Il rosso, il blu, il giallo – giocati appunto, contro  un vuoto. Giocati sulle stessa soppressione della definizione plastica.

 

Milano, 1975


FLAVIO CAROLI

Corriere della Sera, recensione della mostra personale alla Galleria Solferino

 

“Un lavoro di notevole qualità e presa emotiva, concepito per diaspore spaziali di elementi ambigui fra pure allusioni segniche e precise definizioni naturalistiche: sassi, ciottoli, quasi il greto di un fiume che fa “muro” davanti all’occhio. Sono infatti “paesaggi proiettati”, forme naturali che “informalmente” (e questa è infatti la radice culturale dell’artista) trovano la loro collocazione in uno spazio appunto “proiettato”, cioè impaginato secondo l’inquadratura di un mezzo meccanico. È curioso l’incontro fra un uso della materia che potrebbe richiamare il nome di Burri (soprattutto il Burri dei legni) e un’analisi spaziale legata alle ricerche di Fontana. Ma è soprattutto significativa l’invenzione di questo paesaggio ambiguo e meccanico, invenzione che catalizza il lavoro di un gruppo ben definito di pittori milanesi.

 

Milano, 1975


GIOVANNA FABRE REPETTO

Presentazione della mostra personale alla Galleria Solferino

 

Perché una mostra di Gustavo Bonora alla “Solferino”? L’ultima apparizione della sua pittura a Milano risale al 1966. Sono dunque passati più di sei anni senza che Gustavo avvertisse la necessità di una verifica a livello pubblico. Perché ora si è mosso in direzione di una galleria che nel vortice consumistico dell’opera d’arte gioca un ruolo complessivamente modesto, fondamentalmente anomalo, basato più su un rapporto diretto pittore-mercante che sulla conseguente ipotesi di verifica pubblica?

Bonora interessava alla “Solferino” come protagonista di una pittura autonoma, al di fuori della sua problematica esistenziale, complessa e complicata da infiniti fattori, reali e precostituiti.

Bonora in questi anni ha lavorato con continuità e il rapporto con le sue opere viene fuori in modo prepotente ed automatico dall’esame della mostra: ma non è stata la sua una esistenza vissuta in esclusiva funzione della pittura. Ha trovato spazi e problematiche autonome nella musica, nella scuola, nel sistema.

Le sue verifiche Gustavo Bonora dunque le ha cercate anche altrove. E dal sistema, lui come noi, è stato fagocitato, fornendogli le regolari reazioni. Quando si ritrovava davanti alla tela le verifiche di un certo tipo erano già scontate, ne restavano altre, estetiche, psicologiche. Alla “Solferino” interessavano queste verifiche individuali, questo spazio pittorico per nulla vergine ma nel quale un uomo-pittore getta quello che gli viene da dentro dopo una giornata fatta d’anni passati in mezzo ai rumori di un’umanità vissuta alla pari.

Abbiamo chiesto a Gustavo Bonora una testimonianza segreta, una lettura pubblica di fatti strettamente suoi. Ce l’ha concessa. Forse per amicizia. Forse per una precisa coincidenza culturale.

 

Milano, 1973


MARIO PERAZZI

Corriere della Sera, recensione della mostra personale alla Galleria Solferino

 

Il  nome di Gustavo Bonora, ingiustamente, dirà poco ai non addetti al lavoro artistico. Ma era tempo che Bonora si decidesse a fare una nuova mostra. Le opere più ricche di tensione, a nostro avviso, sono nella seconda sala: su sfondi dai toni smorzati, volutamente anonimi, apparizioni, recuperi di forme dalla memoria, tracce, collages, grumi magmatici. Accanto alla qualità pittorica, un curioso, accattivante intento di autobiografia visiva.

 

Milano, 1973


RENZO BELTRAME

Presentazione per la collettiva Pittura '70

 

…in Bonora il cammino è, per così dire, rovesciato. Qui è un’immagine naturalistica, strutturata cioè secondo le consuetudini invalse, a subire, prima di fissarsi sulla tela, una profonda trasformazione nella memoria dell’artista. Egli lascia che altre immagini dell’ambiente originario, il ricordo di emozioni, di certi stati d’animo prevalenti in quei luoghi, ne corrodano le particolarità e vi si amalgamino sino a togliere ogni determinazione del luogo e del momento di prelievo. L’originario fatto visivo tende a diventare un fatto psichico complesso, ma la strada si differenzia da quella dell’espressionismo per la preoccupazione del pittore di evitare che l’immagine venga avvertita come un momento della propria storia personale.

 

Milano, 1970


MARIO DE MICHELI

Presentazione della mostra personale alla galleria L’AGRIFOGLIO di Milano

 

Il problema centrale che oggi sta davanti all’artista consapevole del nostro tempo è quello di esprimere con modi adeguati, cioè moderni, la ricca, complessa inquieta dinamica realtà che da ogni parte ci aggredisce, ci turba, ci esalta. I vecchi modi non servono più: non serve più il naturalismo ottocentesco, non serve più il formalismo edonistico della pseudoavanguardia. Ciò che oggi occorre è un linguaggio che non rinunci alla comunicazione, all’immagine e, al tempo stesso, sia capace di “caricarsi” sia della tensione soggettiva dell’artista quanto dei suoi rapporti con la vita. È quello che G. Bonora, con altri giovani dell’ultima generazione figurativa, sta cercando di fare. La realtà non è per lui un dato pacifico, garantito, solida oasi d’immobilità, è invece centro di urti e di conflitti, di energie in movimento. L’uomo non è per lui un’astratta sintesi di valori: è invece un nodo dialettico operante, attivo nella realtà che si lacera alle sue punte e che tenta nel medesimo momento storico di ricostruire il proprio tessuto umano con ostinata passione.

I quadri e i disegni di Bonora ci parlano di questo. Ciò che è importante per un giovane artista è avere una visione e, dentro alla visione, un impulso. Queste due cose Bonora le possiede. Direi, da taluni quadri e da taluni disegni, che Bonora sta mettendo le mani su qualcosa di vivo. Ce n’è abbastanza per giustificare questa mostra.”.

 

Milano, 1966